Martina: “Il divorzio mi ha liberato da un uomo che per vent’anni mi ha fatto credere di ‘non fare abbastanza'”

03 Maggio 2021

Ci sono relazioni che si rompono di netto, con uno schiocco secco, e ci sono rapporti che si logorano lentamente. Poi ci sono storie che finiscono, perché è come se il tempo facesse emergere una trama sottostante. È sempre stata lì, in piena vista, eppure a modo suo invisibile.

“Nel nostro caso, è andata proprio così: ho convissuto per più di vent’anni con un uomo psicologicamente fragile che mi maltrattava in modo sottile. I segnali erano chiari, inequivocabili, ma io non li ho visti”, confessa a due anni dalla separazione Martina (il nome è di fantasia), 45 anni anni, insegnante di educazione fisica. “La nostra storia è nata a vent’anni. Quando a 23 anni ho scoperto di aspettare un figlio, siamo rimasti insieme, senza sposarci. Con un bambino piccolo, al prezzo di sacrifici grandissimi, sono riuscita a diplomarmi”. Anni duri, in cui l’obiettivo principale è far quadrare i conti: “Lui aveva aperto un negozio, ma per anni ha reinvestito, senza trarne granché. L’unico stipendio che entrava in casa era il mio e lavoravo per due. Come libera professionista, dicevo di sì a qualsiasi offerta e spesso ero fuori la sera”.

La dinamica dei rapporti di coppia era codificata: “Se facevo notare che qualcosa non andava, cercava di distrarmi. Mi faceva un regalo, organizzava un weekend, mi portava fuori a cena, metteva la sordina alle mie critiche”. Con un secondo bambino e un mutuo da pagare, Martina ha ancora meno tempo e tira dritto: “Non potevo fermarmi, neanche a pensare”. A poco a poco, l’attività del compagno inizia a prendere quota. “Paradossalmente, in quel momento il ricatto emotivo è cresciuto. Voleva gestire i soldi, non perdeva occasione per denigrarmi davanti ai figli, a ogni occasione faceva notare loro la mia assenza. Con me era ambivalente. Alternava periodi di aggressività verbale ad atteggiamenti suadenti. La verità è che invece di essere una squadra, eravamo due antagonisti che giocavano la partita uno contro l’altra senza esserne consapevoli”.

Alti e bassi continui

Nella quotidianità, la distanza fra la coppia continua a cresce: “Tornavo a casa la sera dopo il lavoro e in cucina sembrava che fosse scoppiata una bomba, aveva cucinato per i bambini e mi lasciava tutto da mettere a posto”. Quello che resta invariato è il leit-motiv di fondo: “Aveva un bisogno costante, maniacale, di attenzione. Era come un buco nero che assorbiva continuamente energia, un dio affamato che non si placava mai”. Martina viveva con l’acqua alla gola: “In sottofondo, c’era sempre la stessa canzone: non facevo abbastanza, non facevo abbastanza bene. Quello che mi ha salvata, che mi ha aiutata ad andare avanti, è stato il mio lavoro. Anche se mi teneva lontano dai miei figli, mi dava la possibilità di parlare con altre persone, di sentirmi apprezzata per quello che ero e per quello che facevo”. Per anni, l’intensità del conflitto oscilla. “Come una marea, alti e bassi continui. E io sentivo che non c’era un posto dove fermarmi a riprendere fiato”. I figli crescono, e la coppia inizia a parlare di separazione. “Era un’idea che tornava, nei discorsi: vado via io, no vai via tu, cerchiamo di non sconvolgere la vita ai ragazzi… Alla fine, non succedeva nulla”.

 

Vedi alla voce stalking

La svolta, un paio di anni fa, arriva inaspettata. “Avevo iniziato a ricevere regali e messaggi continui da parte di un ammiratore misterioso. Sei mesi di stalking”, ricorda Martina. Preoccupata, ne parla con un amico che lavora in polizia: “Mi ha consigliato di stare al gioco, di accettare un incontro dove ci saremmo presentati insieme”. Lei, invece, decide di andare da sola all’appuntamento. “Da alcuni segnali avevo iniziato a capire che lo stalker non era un uomo sconosciuto, infatti mi sono ritrovata di fronte il mio compagno: si era finto un ammiratore solo per dimostrare una mia presunta propensione all’infedeltà. A quel punto ho detto basta, mi fai paura”. Questa parola, però, come un tornado si abbatte e stravolge la vita dei figli a causa delle sue scene drammatiche e furiose. “Lui faceva sempre la parte della vittima e non perdeva occasione per farlo platealmente”, racconta Martina, “buttando i suoi vestiti in valigia con accessi di rabbia, tornando a casa e poi uscendo di nuovo sbattendo la porta”. L’avvocato aveva messo le carte sul tavolo: la casa era intestata alla madre, i figli sarebbero rimasti nella casa di proprietà, un giudice avrebbe riconosciuto solo metà dell’importo del mutuo pagato dal padre. Tanto valeva mettersi d’accordo direttamente sulla cifra.

La famiglia emotiva

Il dopo è stato un periodo di solitudine e di incredulità. “Mi sono ritrovata emotivamente sola. I miei genitori non hanno capito le ragioni della mia scelta, per difendere l’idea dell’unità familiare a qualsiasi costo. Io, invece, quando mi svegliavo, toccavo il materasso per accertarmi che fossi davvero sola, che fosse davvero finita”. Questo porta a farle pensare quanto, a volte, l’indipendenza faccia paura a noi donne: “Sì. E non solo. Fa paura a chi si è sentita sottomessa e ora, libera, ha un’identità da costruirsi; fa paura a chi non ci può più sottomettere perché ci siamo ribellate; fa paura a chi, magari, continua a ingoiare il rospo per anni convinta di non poter avere di meglio. E, anche se è accompagnata da brevi istanti di euforia, fa paura anche a noi che l’abbiamo conquistata, perché l’indipendenza non è la fine, è l’inizio di un percorso”. La ricostruzione, insomma, per Martina è una strada in salita che vale la pena essere percorsa: “Mi tormenta che il prezzo della nostra separazione lo stiano pagando i nostri figli. Vedo le loro difficoltà, le loro fragilità, mi sento spesso in colpa. Ma cerco di venire a patti con la realtà delle cose. A posteriori, mi rendo conto che non avevo molte alternative perché a lungo andare quella situazione li avrebbe danneggiati e cambiati per sempre. La nostra era una famiglia di fatto, in cui non abbiamo comunicato molto per necessità o per incapacità. Adesso, invece, sto costruendo una famiglia emotiva: io e i miei ragazzi abbiamo iniziato a parlarci e ascoltarci di più, per comprendere a fondo le parole ma anche i silenzi”.

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